Recensione: Il sentiero dei figli orfani di Giovanni Capurso


"Ognuno di noi ha una 'casa' a cui dedicare i propri ricordi", così dice Annalisa al termine della recensione dedicata a Il sentiero dei figli orfani di Giovanni Capurso. Grazie ad Alter Ego edizioni per la copia digitale del romanzo. 

Il sentiero dei figli orfani 
di Giovanni Capurso
Alter Ego Edizioni
Trama
In un’estate torbida agli inizi degli anni Novanta, il giovane Savino si affaccia all’età acerba dell’adolescenza come si affrontano i sentieri in salita del suo paese, San Fele, in Lucania, tanto in alto che gli altri sembrano “presepi accartocciati”.
Da “principiante della vita”, scruta senza troppa curiosità il carattere malinconico del padre Michele, quello un po’ bizzarro dello zio Gaetano, da cui ha ereditato il “demone del dubbio”, e si lascia rasserenare dai modi placidi della madre Carmela; un ménage familiare, il suo, animato da duelli verbali con il fratello Aldo, dal ricordo di antenati sconosciuti e dalle scorribande con Radu, detto Anguilla.
L’idillio verrà spezzato dalla frequentazione di Adamo, forestiero con alle spalle una figlia perduta e il buio della galera, che concretizzerà un processo di crescita assieme all’infatuazione per la bella Miriam, ragazza di città audace solo in apparenza.
Su uno sfondo pietroso ma vivido e tra atmosfere ancestrali, si apre uno scorcio di vita che è quella degli orfani della Lucania, di coloro, cioè – e Savino non farà eccezione – che dopo un’adolescenza passata a chiedersi cosa sia il futuro lasciano la propria terra ma non abbandonano le loro radici.




“Bisogna fare sempre le cose che piacciono, perché quando si fa qualcosa con passione, nemmeno ci si accorge del tempo che passa.”

I tempi, i ritmi, i sogni dell’adolescenza. I primi addii importanti. L’inevitabile distacco dalle proprie origini. Questi i temi fondanti di questo nuovo romanzo di Giovanni Capurso.

Qualcosa era cambiato in quel periodo e, soprattutto, dentro di me: ero diventato un altro agli occhi di quanti mi conoscevano e non sapevo esattamente chi.

Savino Chieco sta tornando nel paesino dove è cresciuto, San Fele, in Lucania, e gli tornano alla mente i ricordi dell’estate in cui tutto cambiò, in cui affrontò la sua prima crisi esistenziale, la prima cotta, il primo lutto, e divenne (un po’ più) grande.

Il paese, come una farfalla su un fiore, è adagiato sulla valle tra il monte Torretta e il monte Castello, talmente in alto che da lì gli altri borghi, Ruvo del Monte, Muro Lucano, Rionero in Vulture, sembrano presepi accartocciati.

L’appartenenza ad una comunità, a dei luoghi ai quali finiamo per somigliare, che ci plasmano, rendono Savino il ragazzo che è: un giovane che si dà da fare ma che, come tutti gli adolescenti, inizia a farsi domande sulla vita, sulle relazioni, su se stesso e si trova in un turbinio di pensieri dai quali non sa come uscire.

“Le persone non sono perfette, io non sono perfetto, non lo siete neanche tu e tuo fratello, ecco perché forse dovresti dargli una possibilità.”

Una serie di personaggi ruotano intorno a Savino, a partire dai componenti della sua famiglia: i Trentadue. Una famiglia fortemente colpita dalla perdita di nonna Giulia, punto di riferimento per tutti. È da questa perdita che devono ricominciare: il padre di Savino, con l’aiuto della moglie, il fratello Aldo e lo zio Gaetano. E poi ci sono l’Anguilla e Adamo; il primo l’amico delle giornate spensierate trascorse tra i sentieri del paese o delle serate di festa, il secondo un signore che viene dal Nord e con il quale Savino entra subito in confidenza. E c’è Miriam, il primo batticuore, la prima delusione, la prima scintilla in un corpo che sta cambiando.

In quell’accogliente serata estiva avrei voluto chiederle con tutte le mie forze di accettare la corte di un romantico omino delle valli trasandato e appassionato di calcio. Ma niente di tutto questo uscì dalla mia bocca.

Famiglia, amicizia, amore, ma soprattutto il rapporto con gli altri e se stessi, mai scontato e facile. Ma anche il rapporto con le proprie origini, tanto forte che si può arrivare a sentire il bisogno di allontanarsi. I figli orfani sono coloro che devono andare a cercare fortuna lontano da casa, ma che sanno che una casa in cui tornare l’avranno sempre.
Un linguaggio tendente al poetico quello che usa l’autore nel suo Il sentiero dei figli orfani, un linguaggio che rispecchia lo spirito con cui il protagonista guarda ai suoi ricordi, ai suoi legami umani e territoriali.

Perché leggerlo → Perché ognuno di noi ha una “casa” a cui dedicare i propri ricordi.

Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. (C. Pavese, La luna e i falò, dall’epigrafe)

- Annalisa - 

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