La recensione a cura di Annalisa di La lunga notte di Parigi di Ruth Druart - Garzanti. Vi ho parlato del romanzo in occasione del blog tour (QUI) accompagnandovi nei luoghi in cui si svolge, oggi Annalisa vi dice la sua opinione. Grazie alla casa editrice per la copia.
Autore: Ruth Druart
Editore: Garzanti
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Parigi, 1944, siamo nei mesi che precedono lo sbarco degli Alleati in Normandia. Una città allo stremo, che cerca di sopravvivere. Rastrellamenti, esecuzioni, fame. Deportazioni. Un orrore dopo l’altro che, ogni volta in cui se ne legge, vengono i brividi.
Charlotte è una giovanissima ragazza francese che è stata mandata dai genitori a lavorare come infermiera all’ospedale tedesco, mentre lei avrebbe preferito continuare a studiare. Non ama particolarmente la sua sistemazione, ma in periodo di guerra ogni piccola entrata è fondamentale per una famiglia. È scrupolosa e si dedica ai suoi pazienti, anche se “nemici”, ma una volta a casa vorrebbe poter vivere una vita normale, senza coprifuochi o boches che chiedono i documenti ogni cento metri.
Jean-Luc, anche lui giovanissimo, viene portato a lavorare ai binari della ferrovia di Drancy, da cui, scoprirà, partono i convogli diretti ad Auschwitz. Suo padre è stato portato via, un giorno, e mandato a lavorare in Germania, ma non è più tornato. Continua a lavorare per i nemici solo per sua madre, per non lasciarla in difficoltà. Anche se, qualche volta, prova a sabotare i binari. È molto coraggioso, come del resto tutti coloro che hanno provato a disobbedire al regime, a modo loro.
Nonostante tutto il male dal quale sono circondati, Charlotte e Jean-Luc si trovano e si innamorano, e riescono a trasformare questo loro legame appena nato in una corsa coraggiosa contro il tempo e contro i nazisti, portando in salvo il piccolo Sam, affidato dalla madre al ferroviere in un estremo gesto di amore prima di essere messa su uno di quei maledetti treni. Il racconto della notte in cui i tre fuggono da Parigi diretti in Spagna è un continuo sussulto a ogni loro passo, una lettura fatta con il fiato sospeso, con un groppo in gola, con la paura sotto la pelle.
TRAMA
Nulla può spezzare l'amore di una madre. È una lunga notte a Parigi. La città dorme quando si ode un sussurro gridato. Un sussurro che dice: addio . Potrebbe sembrare la fine di una storia, invece è solo l'inizio. Jean-Luc stringe tra le braccia il piccolo Sam, che la madre, con il dolore nel cuore, gli affida ancora neonato per salvarlo da un infausto destino. Siamo nel 1944 e Jean-Luc, che lavora per le ferrovie francesi, sa che i treni in partenza da Parigi hanno come unica destinazione i campi di sterminio tedeschi. Ha anche provato a sabotare alcuni convogli, ma senza successo. Per questo accetta di prendere con sé Sam: non ha potuto salvare altri bambini, salverà lui. Ma Jean-Luc sa che restare in città è troppo pericoloso. Il nemico è ovunque. Deve scappare dove esiste ancora una possibilità di essere liberi, quindi decide di partire con la moglie e il piccolo per l'America. Insieme costruiranno una famiglia. Perché così si sentono anno dopo anno. Fino a quando, un giorno, qualcuno bussa alla loro porta. I genitori di Sam sono sopravvissuti, lo hanno cercato senza sosta per anni e ora vogliono riabbracciarlo. Una madre e l'uomo che ha salvato suo figlio si trovano uno di fronte all'altra. Ma il confine tra giusto e sbagliato, tra legami di sangue e legami di affetto è labile come l'ultima luce che indora la Senna sul far della sera. Un esordio venduto in 25 paesi che dalla stampa è stato definito un libro essenziale. Un romanzo che invita a non dimenticare gli orrori del nazismo, le scelte sofferte, le famiglie distrutte dalla guerra e dalla violenza degli uomini. Un romanzo che, all'ombra di una delle città più affascinanti al mondo, racconta un'atroce pagina della storia mondiale. Un romanzo che, dietro la magia di un affetto sincero, dà voce a una verità che cambia ogni cosa. Perché quando il mondo è capovolto, anche un gesto d'amore può avere conseguenze imprevedibili.
RECENSIONE
Quattro anni di occupazione mi avevano lasciato un enorme vuoto dentro. Non era solo la fame incessante, ma anche una sorta di fame emotiva. Morivo dal desiderio di vivere davvero. [...] Ora, anziché il profumo del pane, lungo l’acciottolato aleggiava un odore rancido di sudore stantio: il fetore della paura.
Parigi, 1944, siamo nei mesi che precedono lo sbarco degli Alleati in Normandia. Una città allo stremo, che cerca di sopravvivere. Rastrellamenti, esecuzioni, fame. Deportazioni. Un orrore dopo l’altro che, ogni volta in cui se ne legge, vengono i brividi.
L’ospedale aveva regole severe, ma incoraggiava le infermiere a consolare i pazienti, e io lo facevo volentieri, anche se avrei preferito non lavorare per i tedeschi.
Charlotte è una giovanissima ragazza francese che è stata mandata dai genitori a lavorare come infermiera all’ospedale tedesco, mentre lei avrebbe preferito continuare a studiare. Non ama particolarmente la sua sistemazione, ma in periodo di guerra ogni piccola entrata è fondamentale per una famiglia. È scrupolosa e si dedica ai suoi pazienti, anche se “nemici”, ma una volta a casa vorrebbe poter vivere una vita normale, senza coprifuochi o boches che chiedono i documenti ogni cento metri.
(Jean-Luc) tira dritto, calpestando gli oggetti sparsi sul marciapiede: cappotti, cappelli, borsette. Fissa il treno e vede una mano lunga e magra sbucare da una stretta fessura nella parte alta del carro bestiame [...]. Fra le dita stringono foglietti di carta [...]. Lui si ferma a raccoglierne uno, ma nella penombra non riesce a leggere nulla. [...] Si ficca il foglietto in tasca, immaginando che sia una lettera per qualcuno, una persona amata. Ora non ha più dubbi. Queste persone stanno andando a morire.
Jean-Luc, anche lui giovanissimo, viene portato a lavorare ai binari della ferrovia di Drancy, da cui, scoprirà, partono i convogli diretti ad Auschwitz. Suo padre è stato portato via, un giorno, e mandato a lavorare in Germania, ma non è più tornato. Continua a lavorare per i nemici solo per sua madre, per non lasciarla in difficoltà. Anche se, qualche volta, prova a sabotare i binari. È molto coraggioso, come del resto tutti coloro che hanno provato a disobbedire al regime, a modo loro.
Quando ero con lui, mi sembrava di uscire dal mio corpo per entrare in quello di una donna più bella e più matura. La donna che volevo essere e non solo: mi faceva sentire più coraggiosa di quanto fossi mai stata in vita mia.
Nonostante tutto il male dal quale sono circondati, Charlotte e Jean-Luc si trovano e si innamorano, e riescono a trasformare questo loro legame appena nato in una corsa coraggiosa contro il tempo e contro i nazisti, portando in salvo il piccolo Sam, affidato dalla madre al ferroviere in un estremo gesto di amore prima di essere messa su uno di quei maledetti treni. Il racconto della notte in cui i tre fuggono da Parigi diretti in Spagna è un continuo sussulto a ogni loro passo, una lettura fatta con il fiato sospeso, con un groppo in gola, con la paura sotto la pelle.
Quando Gli ha chiesto di proteggere suo figlio, ha risposto alle sue preghiere. Avrebbe dovuto bastarle. E invece no, ha preteso di più... Avida ed egoista com’è, ha voluto riavere il figlio, non solo per amarlo, ma per possederlo.
Sarah e David stanno vivendo uno dei momenti più belli della loro vita, la nascita di un figlio, nel momento più brutto della storia dell’umanità: a qualche ora dal parto, sono costretti a fuggire tendando il tutto per tutto solamente perché ebrei. E i boches non hanno pietà per nessuno, nemmeno per un neonato. Ma ci pensa il grande cuore di madre di Sarah a salvarlo: sa che il piccolo Samuel non sopravvivrebbe stipato nel carro bestiame destinato ai “campi di lavoro”, e così le basta uno sguardo con Jean-Luc per decidere di affidargli tutta la sua vita. Quanta forza in quel gesto. Quanto coraggio nel lasciare il proprio piccolo appena nato, ancora lattante, nelle braccia di uno sconosciuto.
Privarli della loro umanità faceva parte del piano nazista. Sarah sospettava che li aiutasse a non vedere i prigionieri come esseri umani. Altrimenti come avrebbero fatto a trattarli con tanta crudeltà? E in quelle proporzioni? Come avrebbero potuto picchiarli, torturarli e ucciderli in quel modo?
Il racconto delle settimane passate nel campo di sterminio di Auschwitz è qualcosa di estremamente doloroso. Quante volte abbiamo ascoltato, visto o letto testimonianze, ma tutte le volte è un colpo al cuore. Non ci si abitua mai, e per fortuna, azzardo. Non dobbiamo abituarci a quegli orrori, non dobbiamo dimenticare quello che è successo, non dobbiamo girarci dall’altra parte davanti alle immagini di grandi e piccini ridotti a scheletri, privati della loro dignità e delle loro stesse caratteristiche fisiche. Non deve esserci concesso.
Non sa come fargli da madre. Non ha avuto il tempo per imparare. È troppo difficile ritrovarsi all’improvviso un cambino dal carattere già formato. [...] Suo figlio è ormai perso per sempre ed è stato sostituito da questo sconosciuto.
Sam cresce per nove anni in America insieme ai suoi salvatori, credendo che siano i suoi veri genitori. Ma Sarah e David si sono salvati e, dopo tanti anni passati a cercarlo, vogliono finalmente riavere il loro piccolo. Ma è possibile costringere un bambino a vivere con degli sconosciuti – seppur i suoi genitori – dall’altra parte del mondo, in un Paese sconosciuto e in cui si parla una lingua diversa dalla sua? Qual è il confine tra l’amare una persona e volerne davvero la felicità?
La lunga notte di Parigi è un libro forte, doloroso, ma nel quale si può intravedere un lume di vita. Da una parte la guerra, l’olocausto, l’odio razziale. Dall’altro la speranza, l’amore, il coraggio. La Druart mescola un’infinità di emozioni, regalando ai lettori un romanzo denso e potente. Non c’è una pagina che faccia riposare il lettore, non c’è un episodio nel quale non si sentano odori, sapori, sensazioni. Ma anche dopo la notte più buia e lunga torna la luce. A noi tenerla più accesa possibile, non dimenticando e cercando, nel nostro piccolo, di essere piccoli baluardi di quella stessa luce.
Perché leggerlo → Perché ci sono orrori che abbiamo il dovere di non dimenticare, e la letteratura a volte ha anche questo compito.
- Annalisa -
“Comincia sempre con misure quasi insignificanti... Cose sopportabili, tipo il divieto di possedere una bicicletta o una radio. Ti fa sentire a disagio, alienato, ma la vita va avanti. Poi altre restrizioni fanno accrescere decisamente il malessere: puoi andare solo in determinati posti, fare la spesa solo in certe zone. Non puoi più mescolarti ai non ebrei. [...] Alla fine ti tolgono il lavoro e il denaro, e allora diventa quasi impossibile mantenere la famiglia. I figli hanno fame e cominci a pensare fra te e te: ‘Stanno cercando di ammazzarci tutti’. A quel punto, però, è troppo tardi. Non hai più né il denaro né i contatti per andare via. Praticamente, sei come un uccello senza ali.”
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